Mi sono resa conto di una cosa: nonostante le madri costituiscano la pietra angolare delle teorie psicologiche e sociali sullo sviluppo degli individui e dei sistemi umani, l’interesse per la la mente e i bisogni delle madri rimane in gran parte ai margini degli studi sulle donne o sulla psicologia delle donne. Anche durante la mia formazione sono stata esposta, essenzialmente, a teorie e ricerche che vedono le madri come “ponti” attraverso cui è possibile approfondire lo studio dei bambini.
Tra i vari temi, per esempio, c’è quello della qualità delle cure materne (sensibilità materna) e del tipo di influenza che tali cure avranno sullo sviluppo del bambino (attaccamento sicuro/insicuro).
Questo sguardo sottolinea l’impatto funzionale o disfunzionale che le donne possono avere sui loro figli e in qualche modo dà una valutazione alle loro prestazioni in base alla loro efficacia o meno. Purtroppo, la soggettività della donna è spesso messa in secondo piano e considerata non del tutto rilevante.
Per questo motivo, la Dott.ssa Aurelìe Athan, psicologa clinica alla Columbia University, ha cercato di cambiare il focus nei suoi corsi, spostandosi dalla psicologia infantile alla psicologia della maternità.
Il suo lavoro può apparire quasi sovversivo perché tenta, in qualche modo, di andare oltre il “culto della psicologia infantile” (Burman, 1994) e di andare oltre le famosissime teorie elaborate da Bowlby (attaccamento), Ainsworth e Harlow.
Nella società infatti, il focus viene spostato sulle madri solo quando si parla di disturbi relativi al post-partum (depressione, ansia, ossessioni etc.), ma, anche in questo caso, sempre nell’ottica degli effetti a breve e lungo termine che questi potranno avere sul bambino.
Sono poche ancora le descrizioni scientifiche del potenziale trasformativo e di crescita che il diventare madre può produrre in una donna. Esiste, quindi, un divario tra i dati scientifici disponibili sulla maternità e le esperienze di madri reali.
Alle madri non sono stati dati modelli di riferimento che spiegassero loro il mix di emozioni e reazioni che caratterizzano questa fase della loro vita, per aiutarle ad elaborare la presenza di vissuti anche molto contrastanti fra di loro.
La maternità è sempre stata vista nell’ottica di effetto che la madre può avere nella vita di suo figlio. La madre viene vista più come “oggetto” piuttosto che some “soggetto”: la sua soggettività è trascurata, dimenticata.
La madre è trattata come uno strumento interamente al servizio del bambino, un agente che viene definito principalmente dalla sua capacità di rispondere al bambino, ma i cui bisogni non vengono inclusi.
Sappiamo che rispondere in modo empatico, tempestivo e adeguato ai bisogni del bambino, preservando la propria identità differenziata, richiede tante risorse interiori, che devono essere coltivate nel tempo e che di tempo hanno bisogno. Invece, sembra che la madre venga investita fin dall’inizio da un’unica grande missione: comprendere e soddisfare i bisogno di suo figlio a qualunque costo, anche a costo di sacrificare i propri di bisogni.
Oggi, anche grazie ai progressi compiuti da una psicologia più informata dalle femministe, le esperienze delle donne come madri hanno ricevuto la meritata attenzione in studi di ricerca meno tradizionali. Negli ultimi decenni, c’è stata un’espansione della ricerca psicologica sulle esperienze soggettive della maternità, anche se esiste ancora un abisso tra l’esperienza delle donne e ciò che viene considerato come scienza.
C’è comunque un disperato bisogno di riconoscere la maternità come segmento della vita a sé stante, come fase piena di contraddizioni, che necessita di ulteriori studi.
Quando le donne si trovano di fronte alla realtà di non riuscire a soddisfare gli ideali esposti nella letteratura sulla psicologia dello sviluppo, si trovano a vivere profondi sentimenti di inadeguatezza, delusione e auto-critica.
La paura di sentirsi fallite come madri o di essere definite “cattive madri” può essere così forte che l’unica risorsa che le madri trovano è quella di lavorare ancora di più per raggiungere quello standard di perfezione descritto dalle teorie dello sviluppo.
“Diventare una madre” deve poter essere considerato un fenomeno normativo, un punto di svolta nella traiettoria della vita di alcune donne e, come tale, comporta un naturale e profondo disequilibrio e riorganizzazione. Si tratta di una “crisi” che richiede un processo di adattamento.
Occorre, quindi, ravvivare il termine “matrescenza”, coniato e preso in prestito dell’antropologa Dana Raphael (1975), perché molto utile e adatto a rappresentare questa fase di passaggio della maternità:
“Il periodo di transizione critico che è stato perso è la matrescenza. Il tempo del divenire madre … Il parto non rende automaticamente madre una donna … Il tempo necessario per diventare una madre ha bisogno di essere studiato.” (Dana Raphael)
Proprio come l’adolescenza, la maternità è un’esperienza di disorientamento e riorientamento caratterizzata da un’accelerazione di numerosi cambiamenti che riguardano più domini: quello fisico (cambiamenti nel corpo, fluttuazioni ormonali); psicologico (ad es. identità, personalità, struttura difensiva, autostima); sociale (ad es. rivalutazione delle amicizie, perdono dei propri cari, guadagno o perdita dello status professionale) e spirituale (ad es. domande esistenziali, reimpegno per la fede, aumento delle pratiche religiose / spirituali).
In questo momento, tuttavia, la conversazione sulle maternità non riguarda tanto le madri.
In questo momento, per la maggior parte, la conversazione che la nostra cultura propone sulla maternità riguarda l’impatto che il tipo di maternage ha sullo sviluppo dei bambini.
Parliamo raramente di come la maternità come stadio della vita (la matrescenza, appunto) possa contribuire allo sviluppo e all’evoluzione delle donne.
Parliamo di quanto sia impegnativa la maternità per le donne. Parliamo delle sue sfide. Parliamo di quanto sia difficile trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata per una donna. Parliamo del rischio di depressione post-partum e di altri disturbi e problematiche legati al periodo perinatale.
Ma non parliamo della maternità come fisiologica trasformazione fisica, emotiva e spirituale di una donna; non ne parliamo come di un processo che, pur con i suoi ostacoli e zone d’ombra, permette all’io della donna di svilupparsi e di crescere; non parliamo della maternità come di un percorso in continua evoluzione.
Quando ignoriamo il potere trasformativo della matrescenza e quando non lo intendiamo come uno stadio della vita assolutamente comune e fisiologico per tutte le donne che hanno un figlio, quindi caratterizzato dai marcatori ormonali, biologici, psicologici e sociali specifici e ben identificabili, è come se venissero a mancare strumenti indispensabili per vivere questo processo con la giusta consapevolezza. Sarebbe come navigare in un mare senza alcun riferimento, mappa o indicazione. Ci sentiremmo persi.
Immagina, ad esempio, come sarebbe se non sapessimo che esiste una fase della vita chiamata “adolescenza“.
Immagina se non conoscessimo l’impatto della pubertà e dei cambiamenti ormonali sui ragazzi.
Immagina se non si sapesse che quello dell’adolescenza è un momento ben definito e sfidante che i ragazzi sono chiamati a vivere nella loro vita.
Tutti penseremmo che quei ragazzi abbiano perso la testa, che ci sia qualcosa che non va in loro. La società si comporterebbe in modo punitivo nei loro confronti e magari li bersaglierebbe di critiche e giudizi.
(In effetti, prima che “l’adolescenza” fosse identificata come una fase ben precisa e fisiologica della vita di un individuo, i ragazzi, ormai non più bambini, venivano considerati immediatamente dei piccoli adulti).
Oggi, invece, conosciamo l’adolescenza e come società siamo molto più consapevoli e attenti ai bisogni e alle difficoltà dei giovani; molti progetti e molte risorse sono impiegate per fare in modo che gli adolescenti possano sviluppare appieno le loro capacità.
Il processo dell’adolescenza – che permette al ragazzo di acquisire sempre di più la sua autonomia e sviluppare la sua identità di adulto – è riconosciuto ormai da tempo nella nostra società.
Non possiamo dire lo stesso per la matrescenza, ovvero per quel processo trasformativo specifico, che investe le donne che diventano madri: non ne conosciamo l’esistenza, non la capiamo, non le diamo il giusto valore e, di conseguenza, non ne sosteniamo lo sviluppo.
La matrescenza trasforma le donne in nuove versioni di se stesse. E’ possibile che la matrescenza dia alla donna l’opportunità di riscoprire una nuova versione di se stessa, ma questo solo quando effettivamente c’è consapevolezza che questo stadio della vita esiste e che è possibile navigarlo.